Quando il telefono vibra all’alba di solito è una brutta notizia. E infatti la voce di un compagno dall’altra parte arriva rotta, tremolante: l’acqua gli sta invadendo la casa. A Versa in Friuli la notte si è trasformata in un fiume e le persone si svegliano con i piedi immersi nel fango. Non è una figura retorica, è la realtà: gente che annaspa nel buio, cerca torce, con il cane che abbaia.
Le strade intorno sono impraticabili. Non si può passare in auto. Arriveranno i gommoni, più tardi. A Versa, le sirene restano quasi soffocate dall’acqua che invade, spinge, scava, trascina via tutto ciò che non è ben fissato. E anche ciò che sembrava stabile: la terra, le mura, i ricordi, vengono risucchiati.
Nel frattempo, dalla collina di Brazzano di Cormons arriva una tragedia che non sorprende chi aveva tenuto gli occhi aperti: una frana si stacca, rovescia fango, detriti, case. Tre abitazioni sono distrutte. Si contano due morti. Il collasso non è solo una questione di pioggia: è il risultato di una cattiva gestione, di territorio fragilissimo, di scelte politiche che ignorano l’urgenza di consolidare i versanti. Dietro quei vigneti lussureggianti, dietro quel paesaggio da cartolina, si nasconde un pendio che ha già dato segnali negli anni passati: una terra massacrata dalla monocoltura della vite.
Chi segue attentamente gli allarmi meteorologici sa che non è la prima volta che Brazzano si è dovuta preoccupare. Nei giorni scorsi, nei gruppi degli appassionati di meteo e nei forum locali, molti hanno evocato antichi segnali: non solo l’evento recente, ma anche quanto pare essere successo tra il 2017 e il 2018 è tornato nei discorsi. In quegli anni la collina aveva mostrato instabilità e, a quanto riferiscono gli stessi abitanti, non tutte le promesse di manutenzione si erano concretizzate. Anzi, alcuni interventi di consolidamento sembrano essere rimasti più sulla carta che nei fatti. Una delle due vittime aveva lanciato un avvertimento al Comune: “Qui verrà giù tutto”, avrebbe detto, temendo il cedimento della collina, poi puntualmente avvenuto.
Questo nodo è cruciale: non stiamo parlando di un disastro imprevedibile. Se nell’ultimo decennio ci sono stati più episodi di cedimento e inondazioni, è legittimo chiedersi se si sia veramente voluto investire nella prevenzione o se si sia scelto di rimandare finché non fosse troppo tardi. Vale la pena ricordare che la Regione ha previsto interventi di consolidamento su quel versante di Brazzano già dopo frane passate, ma non pare che quegli impegni siano bastati. Confagricoltura denuncia che almeno una parte di questa emergenza poteva essere evitata, se fosse stata garantita una manutenzione e sistemazione costante e puntuale dei corsi d’acqua e degli argini, cosa peraltro denunciata da anni da Enrico Tuzzi.
Se poi aggiungiamo il cambiamento climatico – con piogge sempre più intense e improvvise – alla fragilità storica di questo territorio, con i suoi pendii friabili e i suoi torrenti trascurati, otteniamo una miscela esplosiva. Non si tratta solo di eventi meteorologici “straordinari”. Le infrastrutture sono costruite su premesse che non valgono più: i modelli idrologici sono mutati, i bacini idrici non gestiscono più la quantità d’acqua che ricevono, e le scarpate e i torrenti vengono a essere sottoposti a una pressione crescente. Inoltre il vigneto, al contrario del bosco, ha scarsa capacità regimante e può generare elevato deflusso sottosuperficiale in grado di saturare il suolo e causarne il collasso. Quando il suolo non respira e non drena, quando la pioggia non ha più uno schema gentile, la terra ribolle sotto i nostri passi.
E poi c’è il Mulino Tuzzi, poco lontano da qui accanto al torrente Judrio, che ha subito anch’esso un colpo durissimo. Quel luogo non è solo un’impresa: è un laboratorio di resistenza, un’idea di agricoltura comunitaria con il Patto delle farine del Friuli Orientale, le collaborazioni con i Gruppi di Acquisto Solidale: un ponte tra passato e futuro. L’acqua ha invaso magazzini, macchinari, spazi di lavoro, ha sporcato tutto di fango e dolore. In poche ore, un sogno collettivo si è trovato di fronte a una montagna di detriti. Ma la risposta non è stata solo lo sgomento: ci si è rimboccati le maniche. Subito sono intervenuti tra gli altri solidali anche libertarie: da Caffè Esperanto di Monfalcone, Germinal di Trieste, Laboratoria Transfemminista Queer di Udine. È nato anche un crowdfunding per tenere in piedi il mulino, per ricominciare da dove la furia ha provato a cancellare: “Sosteniamo il Molino Tuzzi dopo l’alluvione” sulla piattaforma Produzioni dal basso.
A Versa la devastazione è arrivata ancora dal torrente Judrio. È esondato, ha invaso case, terreni, vite. Centinaia di persone sui tetti e poi evacuate, animali morti, notti passate lontano da casa o in palestra, telefoni che non funzionano, corrente saltata, il continuo rombo dei generatori. E la paura non è solo per l’acqua: alcuni abitanti temono che la furia del fango abbia polverizzato e disperso in aria materiali pericolosi come l’amianto. È una paura vecchia, radicata, legata a vecchie condotte che dovevano essere bonificate da tempo.
Nel mezzo della distruzione però c’è anche una forza che non molla. I vicini che portano thermos di caffè, chi arriva con le pale per spalare, ragazzi con gli stivali troppo grandi per loro che vogliono dare una mano. Solidarietà fatta di gesti piccoli, concreti: un libro antifascista salvato dal macero, una sciarpa con la “A” cerchiata salvata dall’acqua sporca. È memoria, è identità, è resistenza.
Le istituzioni passano tra fotografi e telecamere. A Versa c’è una protesta dei residenti al grido di “buffoni”. Si contestano le inadempienze e le promesse non mantenute richiamando la precedente alluvione del 1998. Sono i carabinieri a contenere lo sdegno. I media taglieranno queste scene.
Chi è rimasto nel fango resta stupito da come l’allerta non sia arrivata prima. Con le mani sporche, intanto, riflette su cosa voglia dire veramente ricostruire. Non è solo pulire case e strade, ma rimettere al centro la sostenibilità, la prevenzione, la partecipazione. Se tornerà qualcosa, non sarà grazie a chi arriva dall’alto per farsi riprendere, ma grazie a chi spalava fango, curava relazioni, non mollava la bandiera rossonera nell’angolo bagnato.
Alla fine della giornata, quando il sole cala e il fango sembra liquefare sotto le scarpe, resta una frase appuntata da uno di noi, uno che il mulino lo vive ogni giorno:
«C’è chi ha amici in alto, ma basta osservarlo: il sole sorge sempre dal basso».
E allora eccolo il punto. Se qualcosa risorgerà — le case, i mulini, le comunità — non sarà grazie ai giri in elicottero di governatori ed onorevoli con le loro passerelle mediatiche, le loro promesse. Sarà grazie a chi c’era a bagnarsi fino alle ossa, a chi dava una mano, a chi portava una pala, a chi teneva viva la solidarietà anche quando tutto il resto crollava trascinato nel fango.
Luca – Caffè Esperanto